Venerdì 23 gennaio alle ore 17 presso la Camera di Commercio di Livorno si è tenuto il terzo incontro organizzato dalla Fondazione Memorie Cooperative nell'ambito dell'iniziativa "Lezioni sulla democrazia". Il professor Marco Almagisti ha cercato di rispondere, positivamente, alla domanda “La democrazia può fare a meno dei partiti?” (qui il video del suo intervento).
Dopo essere intervenuti a correggere il suo punto di vista, ovviamente tutto interno al sistema pseudo democratico basato sulle elezioni, abbiamo inviato al sito della Fondazione un nostro intervento scritto. Potete leggerlo a questo indirizzo. Si tratta della versione "abbreviata" che siamo stati pregati di fornire per "motivi di spazio" (sul web?). Qui sotto riportiamo il testo integrale che avevamo preparato:
È ORA DI TENTARE LA
SORTE
Nell'incontro
svoltosi lo scorso 23 gennaio presso la Camera di Commercio di
Livorno, il professor Almagisti ha cercato di rispondere alla
domanda: “La Democrazia può fare a meno dei partiti?”
Purtroppo, come
praticamente sempre accade quando si parla di Democrazia, lo si fa
dando per scontato che quella elettiva conosciuta negli ultimi due
secoli sia L'UNICA forma esistente (e possibile) di democrazia.
Così non è.
Nadia
Urbinati, una delle ospiti degli incontri organizzati dalla
Fondazione Memorie Cooperative nonché autrice del libro "Democrazia
in diretta",
su
Reset
dell'8 aprile 2014, ci parla di un altro metodo praticato con
successo nei secoli passati: “Il
sorteggio è una particolarissima forma di selezione associata alla
democrazia fin dall’antichità perché, contrariamente alle
elezioni, rappresenta un metodo di selezione del personale pubblico
dal carattere autenticamente egualitario. Il sorteggio non divide
l’insieme dei cittadini tra i pochi che decidono in merito alle
leggi e i molti che le votano, ma attua invece il principio
democratico per cui tutti dovrebbero avere la possibilità di
governare ed essere governati a turno e senza discriminazione di
capacità. Oggi, in concomitanza con la crisi dei partiti e il
ricorso di massa a Internet, il metodo del sorteggio pare ritrovare
la sua utilità.”
Praticata inizialmente nella Bulé, il principale consiglio ateniese,
l'estrazione a sorte per la scelta dei rappresentanti pubblici è
stata poi ampiamente utilizzata con successo in alcuni comuni
italiani come Firenze nel Trecento e durante il Rinascimento e, con
modalità diverse, nella Repubblica Marinara di Venezia, oltre che in
Spagna.
Bernard Manin, in
“Principi del governo rappresentativo”, ci informa che
“dall'Atene antica a Montesquieu, da Aristotele a Rousseau, nessuno
ha mai considerato le elezioni strumento democratico per eccellenza.
La migliore espressione della democrazia è stata vista, semmai,
nell'estrazione a sorte, garanzia di rigorosa uguaglianza. Per
converso, esiste un'irriducibile componente aristocratica nel governo
rappresentativo dei moderni, in origine ritenuto sostanzialmente
diverso dalla democrazia.”
Bertrand Russell, in
“Storia della filosofia occidentale”, aggiunge: “Aristotele
dice che eleggere i magistrati è un modo di procedere oligarchico,
mentre è democratico tirarli a sorte.”
E,
in un'intervista al Corriere
della Sera,
lo storico belga David Van Reybrouck, autore di “Contro le
elezioni”, argomenta: “Abbiamo sopravvalutato le elezioni,
considerandole una sorta di sinonimo della democrazia.
Sostanzialmente l’unico modo attraverso il quale la democrazia può
essere esercitata. Siamo tutti diventati dei fondamentalisti delle
elezioni e abbiamo perso di vista la democrazia. L’abbiamo visto
anche con le primavere arabe: la rivolta dell’Egitto ha portato con
sé elezioni, ma non una democrazia accettabile.
Siamo alle prese con
la democrazia da circa 3 mila anni, ma lo strumento delle elezioni lo
usiamo da soli 250. Le elezioni sono state inventate, dopo le
rivoluzioni americana e francese, non certo per fare avanzare la
democrazia, ma semmai per arrestare e controllare i suoi progressi.
Il voto ha permesso di sostituire a un’aristocrazia ereditaria una
nuova aristocrazia elettiva.
Le elezioni hanno
portato a vere iniezioni di democrazia fintanto che si allargava il
suffragio, esteso a tutti gli uomini e poi a tutte le donne.
Da decenni ormai il
percorso si è di fatto invertito e, soprattutto in Occidente, i
cittadini sono stanchi di una partecipazione fondata quasi solo sul
voto. C’è una “sindrome di stanchezza democratica” che porta a
individuare quattro diagnosi possibili: colpa dei politici, della
democrazia, della democrazia rappresentativa o della democrazia
rappresentativa elettiva. Io invece me la prendo con le elezioni, o
meglio con la pigrizia di ridurre tutto al voto.
Le elezioni sono il
combustibile fossile della politica: un tempo erano in grado di
stimolare la democrazia, ma ora provocano problemi giganteschi. La
nostra democrazia ottocentesca non è più adatta ai tempi. Alcuni
esperimenti di estrazione a sorte, negli ultimi anni sono stati
condotti un po’ ovunque nel mondo, dalla provincia canadese della
British Columbia all’Islanda, al Texas a, più recentemente,
l’Irlanda.
A chi critica la
mancanza di competenza di persone sorteggiate, dico: perché, quale
competenza hanno oggi la maggior parte dei deputati nei nostri
Parlamenti? I migliori di loro usano la legittimità offerta dallo
status di eletti per chiedere informazioni e consigli agli esperti, e
infine decidere a ragion veduta. Niente che non potrebbe fare una
persona tirata a sorte. Con il vantaggio fondamentale che i cittadini
tirati a sorte sarebbero forse più inclini a dare priorità al bene
comune, e non alla propria rielezione.
Altri studiosi,
oltre a me, si stanno interessando a questo tema: Habermas,
l’americano James Fishkin e i francesi Bernard Manin e Yves
Sintomer. È il momento di pensare a una democrazia deliberativa e
non più solo elettiva. Quando John Stuart Mill proponeva il voto
alle donne, a metà dell’Ottocento, lo prendevano per pazzo. Le
novità non ci devono spaventare».
Anche
per il citato Yves Sintomer, che insegna Sociologia e Scienze
Politiche all'Università di Parigi-VIII, la democrazia elettiva ha
fatto il suo tempo. Intervistato
nel 2013 da Pierre Chaillan per L'Humanité,
ha dichiarato: “La mondializzazione ha ridotto il ruolo degli
Stati-nazione. Parlare oggi di sovranità non ha più senso, e se
ogni ritorno al passato è illusorio, la prospettiva di una
democrazia transnazionale degna di questo nome resta assai lontana. I
modelli paternalisti fondati su una delega cieca ai professionisti
della politica vengono messi in questione. Nella “società della
conoscenza” e dei social network, non è più credibile pensare che
un qualsiasi “attore” possa da solo incarnare l'interesse
generale. Purtroppo la politica istituzionale è in grande ritardo,
rispetto a questa evoluzione. E la situazione è aggravata dalla
corruzione dei partiti politici. La classe dirigente, per riprendere
un concetto di Gramsci, è sempre più separata dal resto della
società e gira in modo crescente intorno a interessi interni.” A
questo punto “gli scenari sono diversi. Il mantenimento dello statu
quo non è un'ipotesi più sostenibile di quella di una dominazione
aperta della tecnocrazia. Un ritorno alla politica del secolo scorso,
con i partiti di massa e le rivoluzioni comuniste autoritarie è
escluso, e anche l'idea che si possa fare a meno della politica
istituzionale non è credibile. Lo scenario più probabile è quello
della postdemocrazia: apparentemente lo Stato continua a funzionare,
ma le decisioni reali le prendono i consigli d'amministrazione delle
banche e delle multinazionali, le Borse mondiali e i comitati
“d'esperti”. In alternativa, si profila uno scenario autoritario
nel quale lo Stato di diritto e la democrazia formale vengono
considerevolmente limitati.” E ancora: “Il governo
rappresentativo ha finito per attribuire il potere sostanziale a una
“élite”, un'aristocrazia eletta ma che si autoriproduce
ampiamente e viene reclutata all'interno di ristrette cerchie
sociali. L'esperienza democratica degli ultimi due secoli è però
contrassegnata anche dall'irruzione dei subalterni sulla scena
politica. Oggi, l'ampiezza delle mobilitazione civiche “dal basso”,
coordinate in modo largamente orizzontale, impone per essere compresa
di ricorrere a strumenti concettuali come quelli di Weber o di Manin.
Le cose si muovono velocemente e un tema come l'estrazione a sorte
dei rappresentanti ha ormai un'eco che, se pur resta minoritaria,
certamente non è più marginale. Quello che si può sperare, è che
un insieme di attori dagli scopi eterogenei finisca per approdare a
delle reali innovazioni. Ciò che è chiaro, è che occorrerebbe dar
vita a un processo costituente per cambiare le logiche del sistema e
non contentarsi di riforme marginali.
I
referendum d'iniziativa popolare e quelli abrogativi sono sempre più
praticati nel mondo. È uno strumento che non manca di difetti, ma
rappresenta comunque un potente strumento democratico. Reintrodurre
in larga scala l'estrazione a sorte in politica sarebbe un'altra via
percorribile. Anche l'idea delle “comunità” rappresentata da
Wikipedia, implica un modo nuovo di prendere decisioni. In questo
senso sarebbe importante allargare la rappresentazione politica.
Tanto per fare un esempio, abbiamo ereditato dalle monarchie
l'abitudine ad avere “un” presidente della Repubblica (o di una
associazione!), “un” sindaco, “un” segretario generale.
Perché non arrivare a una concezione collegiale della
rappresentanza?”
Alla luce di
riflessioni di questo tipo, alla domanda del professor Almagisti
possiamo rispondere: “Sì, la Democrazia può fare a meno dei
partiti.”
Simone
Weil, nel suo “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”,
sosteneva già più di sessant'anni fa che
“non abbiamo mai conosciuto nulla che assomigli, neppure da
lontano, a una democrazia. Nella cosa a cui attribuiamo questo nome,
in nessun caso il popolo ha l’occasione o i mezzi per esprimere un
parere su alcun problema della vita pubblica. Come dare realmente
agli uomini la possibilità di esprimere, talvolta, un giudizio sui
grandi problemi della vita pubblica? Non è facile concepire delle
soluzioni. Ma è evidente, dopo un attento esame, che qualunque
soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti
politici”. Di quelli che chiamava, svelandone la matrice, “piccole
chiese profane armate della minaccia della scomunica” (e le recenti
espulsioni degli “eretici” dal Movimento Cinque Stelle dimostrano
che anche organizzazioni che si pretendono “diverse”, operando
all'interno del sistema democratico basato sulle elezioni, nella
sostanza non lo sono affatto) la Weil aveva sviscerato con precisione
la reale natura, indicandone così “i tre caratteri essenziali:
-
un partito politico è una macchina per fabbricare passione
collettiva;
-
un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da
esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli
esseri umani che ne fanno parte;
-
il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque
partito politico è la propria crescita, e questo senza alcun limite.
Per
via di questa ultima caratteristica, ogni partito è totalitario in
nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo
perché quelli che lo circondano non lo sono di meno.
Quando in un paese
esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale
che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari
pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco.
Chiunque si interessi alla cosa pubblica desidera interessarsene
efficacemente. Così, chiunque abbia un’inclinazione a interessarsi
al bene pubblico o rinuncia a pensarci e si rivolge ad altro, o passa
dal laminatoio dei partiti. Anche in questo caso sarà preso da
preoccupazioni che escludono quella per il bene pubblico.”
È a partire da
considerazioni di questo genere che l'associazione Cinque e Cinque ha
partorito il “Progetto Bulé”, un tentativo di far nascere in
Italia - e non solo - un movimento d'opinione per il passaggio
dall'attuale pseudo democrazia elettiva, che crea solo oligarchie
partitiche, a una democrazia basata sull'estrazione a sorte dei
rappresentanti.
Permetteteci di
chiudere questa lunga riflessione con un sorriso, riportando un
aforisma del grande Mark Twain: “Se votare facesse qualche
differenza, non ce lo lascerebbero fare”.
In alto, nella foto, lo storico belga David Van Reybrouck
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